Ormai è un lontano ricordo quello delle lunghe code al supermercato attendendo che la cassiera, con destrezza e velocità digitasse uno per uno i prezzi riportati sulle confezioni nel registratore di cassa.
Oggi questo aspetto della spesa quotidiana è stato completamente superato grazie dalla presenza di un misterioso disegno fatto di linee nere su sfondo bianco denominato codice a barre.
Quando osserviamo le merci che vengono presentate al lettore che in una frazione di secondo legge e riconosce il codice, in realtà vediamo solo la punta di un iceberg. I codici a barre infatti si sono affermati in tutti gli ambiti in cui sia necessario gestire, movimentare, catalogare, immagazzinare merci di ogni genere. Quindi il codice che viene letto e riconosciuto dalla cassa finale al supermercato è solo l’ultimo di una lunga catena che si snoda lungo tutta la filiera che porta la merce dal produttore alla cassa che ne computa il prezzo: ad ogni passaggio è coinvolto un codice che viene letto, riconosciuto e catalogato durante le varie fasi del processo.
Negli anni ’70 e ’80 le compagnie assumevano squadre di professionisti per inserire negli archivi informazioni ripetitive concernenti l’inventario dei magazzini, le spedizioni e la ricezione merci.
Questo laborioso processo assorbiva una grande quantità di tempo e denaro ed era grossolanamente inaccurato.
In quel periodo era comune per le grandi aziende tollerare una percentuale molto alta di errori nell’inserimento dei dati.
Statisticamente la digitazione manuale produce un errore ogni 300 battute, mentre la probabilità di errore nella lettura a scanner di un codice a barre è compresa fra 1 su un milione e 1 su 4000 miliardi!
Oggi la presenza del codice a barre, non solo nella movimentazione delle merci ma anche nella catalogazione dei documenti e persino dei pazienti in un ospedale, permette un’accuratezza prossima al 100%
Al miglioramento nell’accuratezza si aggiunge la velocità: gli scanner laser per la lettura di codici a barre operano ad una velocità tra le 40 e le 200 scansioni al secondo!
In questo articolo ripercorriamo le fasi salienti della storia che ha portato il codice a barre alla sua enorme diffusione e cerchiamo di capire qualcosa in più sul suo funzionamento.
Un po’ di storia
La storia del codice a barre inizia nel 1948 a Drexel, Philadelphia. I protagonisti della storia sono rappresentati nelle foto sotto: Bernard Silver, a sinistra, e Norman Joseph Woodland, a destra, allora studenti del Drexel Institute of Technology.
La sfida che fu loro presentata fu proprio quella di rendere più efficiente la gestione delle mezzi di un supermercato e le soluzioni da loro escogitate furono le più varie.
Il primo sistema effettivamente funzionante utilizzava inchiostro sensibile alla luce ultravioletta, ma si rivelò eccessivamente costoso e l’inchiostro tendeva a sbiadire troppo facilmente.
Woodland non si lasciò scoraggiare dall’insuccesso e continuò a lavorare su nuove idee indipendentemente da Silver.
Sembra che l’ispirazione per realizzare il bar code come oggi lo conosciamo gli sia venuta mentre tracciava i simboli del codice Morse sulla sabbia di un spiaggia. Egli estese i punti del codice Morse con le dita formando delle linee. In seguito la sua preoccupazione fu di rendere leggibile il codice indipendentemente dalla direzione di lettura. Per questo motivo ideò un sistema fatto di cerchi concentrici e fu questo il primo brevetto da loro richiesto.
Il loro primo lettore di barcode, costruito nel soggiorno di Woodland, aveva le dimensioni di una scrivania, richiedeva che fosse avvolto in carta oleata nera per impedire alla luce di penetrarvi e sfruttava una massicia rete di relè per processare l’informazione.
Woodland e Silver brevettarono la loro idea nel 1949 e il brevetto, di cui vediamo sulla destra la riproduzione, fu effettivamente emesso nel 1952 quando entrambi lavoravano per la IBM dove continuavano gli studi per migliorare il sistema. Nel 1962 il brevetto fu venduto per 15000$ alla Philco che in seguito lo vendette alla RCA.
Silver morì tragicamente all’età di 38 anni e non ebbe quindi la possibilità di vedere il successo che la loro idea avrebbe avuto negli anni a venire, ma Woodland rimase coinvolto nella vicenda e giocò un ruolo chiave nello sviluppo di quello che fu chiamato Universal Product Code (UPC).
Parallelamente al lavoro di Woodland e Silver, c’è un altro protagonista nella storia del barcode, che contribuì enormemente a renderne l’utilizzo su larga scala tecnologicamente praticabile: David Collins.
Laureatosi nel 1959 al MIT, Collins sviluppò per la Sylvania Corporation un sistema denominato KarTrak che usava strisce riflettenti colorate di blu e di giallo per identificare le vetture di un convoglio ferroviario. Nonostante il sistema fosse facilmente tratto in inganno dallo sporco, esso rimase in uso fino al 1967, quando fu sostituito da un sistema basato su segnali radio.
Alla fine degli anni 60 Collins cercò di convicere i dirigenti della Sylvania a sviluppare un sistema che fosse in grado di leggere dei codici più piccoli e in bianco e nero, adatti a catalogare qualsiasi merce in movimento, non solo i vagoni ferroviari.
Di fronte al rifiuto della compagnia, egli lasciò la Sylvania per fondare la Computer Identics Corporation, dove iniziò lo sviluppo dei primi sistemi basati sull’utilizzo dei laser Helio-Neon.
Questi dispositivi infatti erano da poco divenuti economicamente accessibili e permisero a Collins di creare sistemi in grado di scannerizzare i prodotti individuando il barcode in qualuque posizione si trovasse e fino a distanze significative dallo scanner.
Il 3 aprile 1973, cioè esattamente 40 anni fa, fu varato lo standard UPC e in quel momento la tecnologia di Collins era pronta per permetterne la diffusione mondiale.
Dalla nascita dell’UPC ci volle però poco più di un anno perché il 26 giugno 1974, alle 8.01 del mattino in uno store a Troy nell’Ohio, Mr Clyde Dawson acquistasse un pacchetto di gomme da masticare Wrigley gusto juicy fruit e pagasse 61 centesimi alla cassiera Sharon Buchanan, che avrebbe scansionato per la prima volta il codice a barre stampato sul pacchetto di gomme.
Oggi quel pacchetto di gomme Wrigley insieme alla sua ricevuta è esposto allo Smithsonian Institution’s National Museum of American History.
Il padre dello standard UPC invece si chiama George Joseph Laurer e lo vediamo qui a fianco in fotografia.
Curiosamente, sullo standard UPC, hanno trovato da ridire i complottisti cristiani. Lo standard prevede che il codice sia diviso in due parti da tre figure composte da due barre più sottili, poste all’inizio, al centro e alla fine del codice.
Queste barre rappresentano il cosiddetto carattere di controllo e si dà il caso che la sequenza 101 (cioè una barra sottile nera, una sottile bianca e un’ultima sottile nera) codifichi, nello standard, il numero 6. Ne consegue che annegato all’interno di ogni barcode è presente il numero 666 che ricorda la “Bestia” di biblica memoria.
Ovviamente lo stesso Laurel ha etichettato questa come una semplice coincidenza, esattamente come una coincidenza è il fatto che il suo stesso nome è composto da 3 parole da 6 lettere ciascuna!
In Italia il codice a barre arrivò nel 1978, quando era ormai già stato adottato nel resto d’Europa, attraverso la nascita della Indicod. Ci fu però un grosso impegno per recuperare il tempo perduto. Infatti nel 1985 le aziende associate che avevano adottato il codice a barre erano 1.600, nel 1995 arrivarono a 16mila e oggi l’uso è generalizzato, con 35mila aziende.
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