“Errare è umano” si è detto per secoli.
Oggi gran parte delle attività quotidiane sono automatizzate, ma anche nella società moderna, in cui a fianco di un uomo c’è spesso una macchina, o un computer, che lo aiutano nel lavoro, ci troviamo a dover fare l’amara constatazione, che, ineluttabilmente, le macchine non fanno altro che aiutare l’uomo a sbagliare.
Insomma l’umanità è giunta a patti con la triste realtà che con l’errore ci si debba convivere e in questo articolo analizziamo i modi che sono usati, in vari campi, per far si che gli errori, se inevitabili, non facciano, per lo meno, troppi danni.
Il sospetto che si sia una separazione profonda fra la realtà e ciò che noi percepiamo della stessa affonda le sue radici già nella filosofia greca classica.
Possiamo vederne un esempio anche nel famoso mito della caverna di Platone.
Il mito della caverna è contenuto nel libro settimo de “La Repubblica”. Esso è esposto sotto forma di dialogo fra Platone e Glaucone ed è usato dall’autore per ragioni che non sono direttamente collegate al concetto di errore, ma piuttosto all’importanza e la necessità di perseguire la ricerca della verità.
Ne riporto un breve passo:
«Se dunque [i prigionieri] potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?”
“E’ inevitabile».
«E se nel carcere ci fosse anche un’eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all’ombra che passa?”
«Certo, per Zeus!».
«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».
«E’ del tutto inevitabile», disse [Glaucone].
Si tratta di una sorta di “esperimento mentale” in cui si ipotizza che esista un gruppo di sfortunati personaggi tenuti prigionieri fin dall’infanzia in una caverna, incatenati in modo tale da poter vederene solo una parete dove vi sono proiettate le ombre di alcuni oggetti posti da trasporatori esterni su un muro dietro di loro.
Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà (ta onta); e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre.
Quello che mette in evidenza Platone più avanti nel dialogo è che la realtà, di cui hanno esperienza i prigionieri, non sia la vera realtà, ma piuttosto una sua versione imperfetta e approssimata.
Il filo conduttore che lega Platone ad una nutrita serie di filosofi antichi e che arriva sostanzialmente ininterrotto fino a Kant, è che vi sia una separazione netta fra i due mondi del fenomeno e del noumeno. Cioè il mondo delle cose come ci appaiono attraverso i sensi e il mondo di come esse sono in realtà.
Lasciamo alla filosofia il dibattito su come si possa, se si possa o anche se si debba cercare una unificazione fra questi due mondi per concentrarci su una questione più prosaica: nel mondo del fenomeno ci siamo fino al collo!
E per quanto possiamo considerare biasimevole la sua vera o presunta imperfezione, rimane il fatto che l’atto di effettuare delle misurazioni per quantificare delle grandezze reali, risulta sempre in una molteplicità di valori che saranno sempre diversi fra di loro. Anche se la nostra intenzione sarebbe di misurare sempre la stessa grandezza.
Anche quando pensiamo di avere a che fare con una misura ripetibile, che cioè restituisce sempre lo stesso valore, a ben vedere si tratta solo di una misurazione poco accurata e la rassicurante uniformità dei valori trovati sparirebbe nel momento in cui iniziassimo ad usare uno strumento più preciso.
Dal momento che abbiamo accennato al problema di misurare una grandezza e cercare di capire quale sia il “Valore Vero” di questa grandezza non avendo altro che una manciata di valori diversi fra loro, dedichiamo il prossimo paragrafo agli strumenti che la matematica ci fornisce per affrontarlo.
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