Cui prodest?

Oggi l’accesso all’informazione è capillare e immediato. Miliardi di persone sono iscritte a qualche tipo di social network e hanno uno strumento per accedervi a meno di un metro di distanza. Tipicamente in tasca!
Dall’altro lato della barriera ideale che separa i fruitori dai fornitori di servizi, il flusso di informazioni che la attraversa è diventato una commodity, una risorsa da sfruttare per fini commerciali. Il nostro comportamento sulla rete è osservato e monetizzato. Le superpotenze di questo mondo fatto di dati e informazioni ha ricevuto un acronimo: GAFA-Google, Apple, Facebook, Amazon.

Queste quattro aziende sono diventate in meno di un decennio dei colossi con fatturati che si aggirano intorno alle decine di miliardi di dollari annui, in grado di spostare capitali e fare investimenti su una scala che un tempo potevano essere affrontati solo dagli stati nazionali. Per fare un esempio, la Alphabet, la società che controlla Google, ha fatturato 33.7 miliardi di dollari nel terzo quadrimestre del 2018.
Nel grafico che segue vediamo il valore di mercato in miliardi di dollari che esse avevano nel 2017 (cliccare per ingrandire).

Certo, come utenti riceviamo un servizio da parte di queste aziende. Senza Google la quantità mostruosa di informazioni presente sulla rete sarebbe praticamente irraggiungibile semplicemente a causa della sua enormità. Senza contare i servizi accessori come la navigazione, la posta elettronica e l’archiviazione. Apple fornisce un ecosistema di hardware che ha acquisito una posizione di dominio in grado di resistere agli attacchi di numerosi concorrenti. Facebook ha oltre due miliardi di utenti e Amazon sta allargando la sua influenza alla distribuzione di beni di ogni genere.

Tutto ciò è stato possibile attraverso un uso intelligente ma spesso spregiudicato delle informazioni che gli utenti mettono inconsapevolmente a disposizione quando usano il loro servizi. E in qualche caso la situazione può sfuggire di mano. Di seguito alcuni campanelli d’allarme.

Il 17 marzo 2018, il New York Times e The Observer hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica l’attività di un’azienda di consulenza chiamata Cambridge Analytica. L’attività dell’azienda consisteva nel reperimento e analisi di dati statistici e comportamentali degli utenti di internet al fine di creare modelli matematici da usare per rendere più efficaci le campagne elettorali dei propri clienti, principalmente candidati americani di area repubblicana. Nel 2014 essa è stata coinvolta in ben 44 campagne politiche negli Stati Uniti e nel 2015 ha collaborato alla campagna che ha portato all’elezione di Trump e al referendum per la Brexit.
Ciò che ha portato l’operato di Cambridge Analytica alla ribalta è stato però l’uso di informazioni personali di 50 milioni di americani prelevati dai database di Facebook, cosa che ha persino portato il presidente del Social Network, Mark Zuckerberg, a risponderne davanti al congresso americano.
La vicenda mette in luce la grande responsabilità che hanno queste aziende nel maneggiare l’enorme quantità di dati relativi ai propri utenti, in quanto l’uso che se ne può fare va ben oltre la semplice personalizzazione dei consigli per gli acquisti.

Per avere un’idea di quanto in profondità si possa andare attraverso l’analisi dei dati raccolti attraverso internet, possiamo citare uno studio del 2013 firmato da Kosinski, Stillwell e Graepel dell’università di Cambridge.
Nel loro lavoro gli autori analizzano i dati demografici e i likes su Facebook di 58000 volontari arrivando a predire con straordinaria precisione l’orientamento politico e sessuale dei partecipanti, ma estrapolando informazioni significative anche al di fuori del campione usato per il test.
L’esempio che è stato riportato sui giornali riguarda la sorprendente conclusione che alle persone intelligenti piacciono le patatine ricce (curly fries)!
Ovviamente non vi è una relazione di causa-effetto fra l’essere intelligenti e le patatine fritte, ma da un punto di vista puramente statistico la relazione c’è. Quindi, indipendentemente dal fatto che voi siate o meno iscritti a Facebook o usiate minimamente internet, se frequentate luoghi o comitive legate ad ambienti intellettuali, college, università, è assai probabile che abbiate a che fare con quel tipo di prodotto e quindi siete un potenziale acquirente. E’ chiaro che il tipo di analisi fatta sulle patatine può essere fatta in altri ambiti, per cercare potenziali candidati per un’affiliazione politica o qualsiasi altro fine possa avere il committente dello studio statistico.

Il fatto che la gran parte dei dati su internet siano di fatto monopolizzati da pochi operatori ha anche altre ricadute negative, specialmente per i creatori di contenuti multimediali. I contenuti che hanno successo e quindi generano ricavi per i loro creatori, sono quelli che “piacciono” agli algoritmi di intelligenza artificiale, che assemblano l’home page che viene visualizzata dai vari utenti. E l’obiettivo che perseguono questi algoritmi non è quello di remunerare i creatori dei contenuti per il loro lavoro, musica o video che sia, ma quello di tenere gli utenti più attaccati possibile all’interfaccia e aumentare l’esposizione pubblicitaria degli inserzionisti. Un creatore che basi i propri introiti sui proventi della pubblicità su un social network, rischia di trovarsi senza ricavi dall’oggi al domani a seguito dei capricci di detto algoritmo. E l’intelligenza artificiale è in grado di visionare o ascoltare i contenuti che vengono caricati sulle piattaforme e operare delle censure o controllando la monetizzazione degli stessi, a volte penalizzando erroneamente delle opere anche quando non sono in violazione dei termini d’uso della piattaforma.

Infine, la centralizzazione dei contenuti ha un ulteriore effetto collaterale.
Il 29 aprile 2017, le autorità turche hanno bloccato l’accesso online a tutte le versioni linguistiche dell’enciclopedia online Wikipedia in tutta la Turchia. Grazie alla tecnologia su cui è costruita la rete, l’autorità turca ha avuto i mezzi tecnici per bloccare completamente l’accesso ad un intero portale web così come gran parte della rete è filtrata e inaccessibile da parte degli utenti cinesi, per motivi analoghi.

Per superare gli inconvenienti descritti sopra, bisogna superare una caratteristica intrinseca del protocollo HTTP, la centralizzazione. Quindi la parola d’ordine per entrare nel WEB 3.0 sarà de-centralizzare!