Gli ingredienti per una sana decentralizzazione

Nonostante esso abbia permesso alle aziende di cui abbiamo parlato di diventare delle vere e proprie potenze economiche e abbia permesso alla rete di diventare parte della realtà quotidiana per miliardi di persone, da un punto di vista strettamente di tecnologia di rete, il Web 2.0 è del tutto equivalente al Web 1.0.
Esso si basa sulla stessa infrastruttura a livello di rete costituita da TCP/IP e HTTP e l’ipertesto è ancora il concetto base delle relazioni tra i contenuti. La differenza sta soprattutto nel modo in cui i contenuti raggiungono la rete, attraverso l’interazione che gli utenti hanno con i server destinati ad accoglierli. Come abbiamo visto, il rovescio della medaglia consiste nel fatto che alcuni soggetti possono specializzarsi nel lucrare sulla raccolta di questi contenuti senza che i legittimi proprietari degli stessi possano avere alcun controllo sull’uso che viene fatto delle proprie informazioni personali.

Negli ultimi anni però sono state sviluppate alcune tecnologie che, se coordinate in un’entità che viene definita Stack Web 3.0, possono costituire il salto tecnologico necessario a superare il paradigma attuale.

BitTorrent → Peer-to-Peer, Hashing

Sviluppato nell’aprile del 2001 da Bram Cohen, il protocollo BitTorrent è diventato oggi uno dei mezzi più efficienti, e più usati, per condividere files, anche e soprattutto di grosse dimensioni. Il protocollo è pensato per operare all’interno di una rete cosiddetta Peer-to-Peer, cioè una rete in cui non vi sia un server centrale su cui risiede l’informazione e a cui accedono i vari utenti per reperirla, ma ogni utente che possiede una copia del file lo mette a disposizione di tutta la rete per condivisione.
Il vantaggio di questo approccio è una ottimizzazione della banda in quanto, man mano che l’informazione si propaga attraverso la rete, diventa sempre più difficile che si creino dei colli di bottiglia nelle trasmissioni. Inoltre, non c’è più il pericolo che la risorsa diventi non disponibile se dovesse venire meno il server che la contiene, in quanto ogni nodo della rete, in maniera perfettamente paritaria, può diventare un “seed” e ri-distribuirla.
La grossa differenza fra BitTorrent e gli altri programmi/protocolli di file sharing che lo hanno preceduto risiede nel modo in cui vengono trattati fisicamente i file da condividere. Il software di condivisione, infatti, non si limita a mettere in contatto due utenti per la trasmissione del file, ma lo suddivide in blocchi di dimensione fissa e, per ciascun blocco, applica una funzione di hashing.
Tale funzione non fa altro che associare una sorta di identificativo alfanumerico unico al singolo blocco di dati in modo che possa essere distribuito a chiunque ne abbia bisogno sulla rete senza ambiguità. Quindi un utente può ricevere i blocchi che gli mancano per completare il file da qualunque nodo della rete.

BitCoin → Criptovalute, Blockchain

Nel 2009, ad opera di un inventore anonimo noto sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, nasce ufficialmente la prima e più famosa ciptovaluta, il Bitcoin. Si tratta di un’applicazione particolare di un concetto più generale che è quello della blockchain. Come può suggerire il nome, la blockchain è una struttura dati organizzata in blocchi concatenati e tale concatenazione è effettuata tramite il calcolo di una stringa di hash, di cui abbiamo parlato poco sopra.
In sintesi, se ad un blocco di informazioni, qualunque esse siano, si aggiunge la stringa di hash, che è una specie di impronta digitale univoca, di un altro blocco di informazioni, allora questi due blocchi saranno indissolubilmente collegati perché il calcolo della stringa del blocco successivo conterrà al suo interno l’informazione della stringa univoca del blocco precedente.
L’idea di Nakamoto fu quella di utilizzare la blockchain per immagazzinare nei singoli blocchi informazioni riguardanti lo scambio di una entità dotata di valore economico come si farebbe con una valuta. La catena di transazioni così costruita, che può essere paragonata ad un libro contabile (ledger) a tutti gli effetti, viene poi distribuita in maniera pubblica su tutta la rete in modo che tutti i nodi ne abbiano una copia.
Per come è congegnato il calcolo dell’hash dei singoli blocchi, una alterazione della catena, una volta che i blocchi le sono stati aggiunti e riconosciuti come validi dalla maggior parte della rete, è computazionalmente infattibile. La catena di transazioni che ne risulta è praticamente immutabile e il risultato è quello di avere una gestione della moneta totalmente decentralizzata che non necessita di un ente di controllo come una banca centrale.

Cosa bolle in pentola

Come abbiamo detto, il Web 1.0 era basto su un’architettura totalmente centralizzata. L’utente che aveva bisogno di una risorsa si collegava al server che la ospitava per poterne usufruire. Nell’era del Web 2.0 il traffico e la quantità di utenti è tale che un modello così centralizzato non potrebbe funzionare data la limitazione della banda a disposizione. Non è tecnicamente possibile per siti come Facebook o Youtube servire miliardi di utenti contemporaneamente se tutti i dati fossero concentrati in un unico computer, per quanto grande e potente questo possa essere. La rete si è quindi evoluta verso un’architettura distribuita. I grandi fornitori di servizi, come i sopra citati Facebook o Youtube, ma anche Netflix o lo stesso Google, hanno distribuito in giro per il globo dei server locali in grado di accogliere le richieste di una porzione limitata di utenti.
In questo paradigma tuttavia la gestione dei dati è comunque centralizzata e in mano ai proprietari di detti server locali.
Nel paradigma Web 3.0 che si sta consolidando invece, l’informazione è distribuita su tutta la rete e il superamento della centralizzazione intrinseca in HTTP avviene attraverso IPFS – Interplanetay File System.
Si tratta di una sorta di enorme database distribuito su tutta la rete in cui i file, anziché essere reperiti attraverso uno specifico indirizzo fisico, lo sono attraverso un identificativo univoco UID, che è la stringa di hash del file in oggetto.
Quindi un utente può riversare un contenuto, sia esso un video, un audio o un file qualsiasi ed esso sarà per sempre reperibile sulla rete attraverso il suo UID. I contenuti saranno per sempre disponibili e accessibili a tutti i nodi della rete, quindi saranno al sicuro da censure e da scomparsa per cessato funzionamento di un particolare server. Dal momento che la rete potrà individuare in maniera univoca il singolo contenuto, sarà più facile per i creatori di tali contenuti controllarne la diffusione e di conseguenza ricavarne degli introiti, senza intermediari.
Ovviamente il supporto fisico per i file è sempre necessario in quanto la rete non è un concetto astratto, ma un insieme di computer collegati fra loro. Per far sì che ogni utente sia incentivato a mettere a disposizione una certa quantità di spazio fisico per archiviare una piccola parte di Web 3.0, è nato il filecoin, una criptovaluta pensata per remunerare i cosiddetti miners in funzione di quanto spazio mettono a disposizione della rete.
Ma le potenzialità del Web 3.0 non finiscono qui.
Un attore molto importante nello sviluppo del nuovo paradigma è il progetto Ethereum che mira a spingere il concetto di blockchain ancora oltre.
Ad Ethereum fa capo una criptovaluta, l’Ether, e un linguaggio di programmazione denominato Solidity. Questo linguaggio di programmazione permette di scrivere del codice pensato per essere distribuito, sotto forma di quelli che vengono chiamati “Smart Contract“, ed eseguito sulla rete decentralizzata.
Con questi strumenti sarà quindi possibile creare dei contratti fra privati per la compravendita di beni che non hanno bisogno di nessun tipo di notariato per essere ufficializzati in quanto non solo la transazione in essere sarà archiviata in maniera indelebile sulla rete, ma anche tutta la storia passata dei beni e dei soggetti che vi sono coinvolti.
IPFS è già disponibile e accessibile. C’è persino un clone di Youtube chiamato DTube in cui i contenuti sono gestiti con criteri di decentralizzazione, senza algoritmi che decidono le priorità dei video, senza pubblicità e senza censure.
E’ stato rilasciato anche un browser chiamato Brave che blocca la pubblicità sui siti cercando di incentivare la donazione diretta verso i creatori di contenuti.
E’ bene tuttavia ricordare che si tratta di tecnologie giovani, che hanno bisogno di irrobustirsi nei confronti di utilizzi maliziosi e sicuramente quando il nuovo paradigma si sarà affermato al posto di quello attuale, esso sarà molto diverso da quanto descritto sommariamente in queste poche righe.
C’è però tanta carne al fuoco e le promesse sono veramente interessanti. Staremo a vedere…