La scala musicale nel medioevo

La dottrina pitagorica, risalente al 500 a.C. e rivelata ai non iniziati da Filoláo intorno al 300 a.C. iniziò a diffondersi nel mondo antico e inevitabilmente venne assorbita dalla dottrina cristiana che andava consolidando le sue basi filosofiche.
Il personaggio che giocò un ruolo fondamentale nella sua reinterpretazione in chiave cristiana e successiva diffusione fu il filosofo e senatore romano, vissuto fra il 400 e il 500 d.C., Anicio Manlio Torquato Severino Boezio oggi noto semplicemente come Boezio.

Nella sua opera De institutione musica, Boezio riprendeva le concezioni di Pitagora così come le abbiamo viste nel paragrafo precedente, le estendeva e approfondiva. A lui si deve la notazione in uso ancora oggi, prevalentemente nei paesi anglosassoni, di indicare le note utilizzando le lettere dell’alfabeto. Nel suo trattato Boezio distinse fra musica instrumentalis, che coincide con il concetto di musica che abbiamo ancora oggi, la musica humana, in cui si applicano i concetti pitagorici all’anima umana e la musica mundana, in cui gli stessi concetti vengono usati per descrivere l’universo attraverso la già citata armonia delle sfere.

Le idee di Boezio ebbero larga diffusione e influenzarono molto la concezione della musica nei secoli a venire.
Nel 1324, papa Giovanni XXII nella bolla “Docta sanctorum patrum“,arrivò perfino a proibire l’uso di intervalli che non corrispondessero a quelli della scala pitagorica nel tentativo di frenare l’avvento della polifonia in cui la costruzione degli intervalli ideata da Pitagora mostrava i suoi limiti.
La concezione pitagorica, rimase molto radicata ancora nei secoli successivi. L’illustrazione in questa pagina, per esempio è tratta dal Tractatus theologo-philosophicus del 1617 del filosofo ermetico Robert Fludd il quale, a quasi mille anni di distanza dall’opera di Boezio e quasi duemila da Pitagora, ne riassume i concetti fondamentali in un diagramma che racchiude il monocordo, gli intervalli musicali e le sfere celesti.

Molto più interessato agli aspetti pratici che alla teoria della musica fu il monaco camaldolese Guido d’Arezzo, nato probabilmente a Palermo alla fine del 900 d.C. e attivo a Pomposa e successivamente ad Arezzo.
Con lo sviluppo della monofonìa in campo ecclesiastico, si era reso necessario individuare un metodo efficace per tramandare e insegnare i canti liturgici rispetto alla semplice tradizione orale.
I primi codici ad essere inventati si dicono oggi adiastematici, in quanto utilizzano dei simboli, detti neumi, scritti in campo aperto, che rappresentano le durate relative delle note e genericamente la direzione dell’intonazione, ma non indicano con precisione gli intervalli fra i suoni. Questi codici, fra i quali il codice sangallese e quello metense si andarono poi perfezionando verso la scrittura diastematica in cui i neumi assumono una forma squadrata (notazione quadrata) e sono disposti su un rigo musicale che nella sua forma d’elezione usata per il canto gregoriano è costituito da quattro linee.

Dal 1025, Guido fu insegnante di musica e canto nell’antica sede della cattedrale di Arezzo e l’esigenza di avere una notazione efficace per l’insegnamento della musica lo spinse a perfezionare la scrittura neumatica tradizionale verso quella che, pur con qualche aggiustamento, usiamo ancora oggi.

Innanzitutto bisogna introdurre un concetto fondamentale per la musica all’epoca di Guido d’Arezzo: l’esacordo.
L’esacordo è una successione di sei note in cui queste sono tutte a distanza di un tono rispetto a quelle adiacenti, tranne due fra le quali intercorre l’intervallo di un semitono. Ricordiamo che nella scala pitagorica l’intervallo di tono e semitono erano ben definiti. Guido individuò tre tipi di esacordo:

  • Esacordo naturale:TTSTT → do-re-mi-fa-sol-la
  • Esacordo duro:TTTST → fa-sol-la-si-do-re
  • Esacordo molle:TSTTT → sol-la-sib-do-re-mi

L’esacordo aveva particolare importanza nella musica liturgica dell’epoca in quanto le melodie tendevano ad essere comprese all’interno di un singolo esacordo.
La notazione proposta da Boezio assegnava semplicemente delle lettere, dalle più gravi “A-B-C-D-E-F-G” alle più acute “a-b-c-d-e-f-g” per proseguire verso il registro ancora più acuto “aa-bb-cc-dd-ee” a cui si aggiungeva una nota più bassa indicata con un gamma maiuscolo Γ. Guido cercò un sistema per permettere ai propri studenti di cantare qualsiasi melodia assegnando dei nomi convenzionali alle note che, al contrario delle lettere usate per la scala completa, fossero anche facili da vocalizzare.
Per far ciò si servì di un canto dedicato a San Giovanni scritto dal monaco poeta Paolo Diacono, caratterizzato dal fatto che l’inizio di ogni emistichio del canto corrispondesse ad un grado crescente dell’esacordo naturale.

«Ut queant laxis
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum
Solve polluti
Labii reatum
Sancte Iohannes»
«Affinché possano cantare
con voci libere
le meraviglie delle tue gesta
i servi Tuoi,
cancella il peccato
dal loro labbro impuro,
o San Giovanni»

A parte l’Ut che è stato successivamente sostituito dal Do per maggiore cantabilità e il Si che nella musica dell’epoca non era musicalmente funzionale, come si può vedere, in questo inno riconosciamo i nomi delle note in uso ancora oggi. Ma il modo con cui esse venivano usate era molto diverso.
Infatti per Guido i sei nomi servivano ad identificare i gradi all’interno dell’esacordo e questo poteva essere posizionato in diversi punti della scala completa in funzione della posizione del semitono che intercorre fra le note Mi e Fa.
Nel diagramma seguente, da un trattato del 1555, si possono vedere le diverse posizioni dell’esacordo e se la melodia richiedeva al cantore di superare il limite delle sei note, vi erano delle regole, dette mutazioni, per traslare l’intero esacordo per fare in modo che le note Mi e Fa si trovassero sempre ad essere separate da un semitono.
Tale diagramma venne poi denominato “Gamut” dalla combinazione di note iniziali, “gamma + ut”.

La nota B poteva esistere in due varianti: “molle”, un semitono più in basso, e “dura”. Tale denominazione era tratta dal modo con cui veniva effettivamente disegnata la lettera “b”: se aveva la pancia arrotondata era una “b-molle” (da cui la moderna denominazione di bemolle ♭ simboleggiato appunto da una piccola b) e l’altra era una b più spigolosa (da cui viene la moderna denominazione bequadro ♮ anch’esso derivato da una “b squadrata”).

A determinare quale tipo di B utilizzare era ancora una volta l’esacordo. L’esacordo molle era quello che iniziava da F e faceva cadere il Mi in corrispondenza della “a” costringendo la “b” ad essere molle per conservare la distanza di un semitono.
Al contrario se l’esacordo partiva da G il Mi cadeva in corrispondenza del “b” naturale che si trova già a un semitono di distanza da “c”.
L’esacordo che partiva da C era detto naturale in quanto non conteneva la B e quindi non aveva alterazioni.

Per aiutare gli studenti a districarsi in questo sistema di trasposizioni, Guido ideò (o per lo meno rese celebre) un metodo che prese poi il nome di mano guidoniana in cui si associano alle falangi della mano le sequenze di possibili trasformazioni per ogni riga del “Gamut” e veniva insegnato un percorso a spirale che toccava le varie falangi nell’ordine necessario ad eseguire correttamente la mutazione di esacordo.

Questo sistema ebbe un tale successo che rimase in uso per secoli, soprattutto in ambito liturgico.
Per avere un’idea del livello di conoscenza che era richiesto ai professionisti della musica si possono citare i 20 test per il posto di maestro del coro alla cattedrale di Toledo in Spagna del 1604, che fu poi assegnato a Alonso de Tejeda che ricoprì la carica a partire dal 1605.
Diverse prove prevedevano proprio l’uso della mano guidoniana per indicare una melodia puntando le note sulle corrispondenti falangi e in uno dei test più difficili era richiesto che il candidato rappresentasse su entrambe le mani due parti improvvisate, indicandole con i movimenti delle dita, a partire da un tema assegnato. Le due parti dovevano essere cantante da due altri candidati, mentre venivano esposte sulle mani, mentre l’esaminando ne improvvisava, cantando, una terza!