La nascita della neuroetica
Il dibattito che finora era stato oggetto quasi esclusivamente di analisi etico/filosofiche entra nel campo della scienza sperimentale nel 2001 con la pubblicazione dei risultati di un gruppo di studiosi del’istituto di neuroscienze di Princeton fra cui ricordiamo Jonathan Cohen (a sinistra) e Joshua Greene (a destra).
Le recenti scoperte nell’ambito delle neuroscienze stanno evidenziando sempre di più che le decisioni che noi prendiamo, o che il nostro cervello prende se si preferisce, non sono il frutto di un ragionamento razionale che analizza i fatti in obbedienza a delle regole etiche di ordine superiore, ma piuttosto una mediazione di istanze che differenti parti del cervello possono avere ciascuna con uno scopo proprio e spesso celato alla mente cosciente.
Nel caso del dilemma del carrello gli studiosi hanno fatto uso della macchina per la risonanza magnetica funzionale per andare a vedere cosa succedeva in tempo reale nella testa delle persone soggette al test.
Al dilemma, così come è stato esposto in questo articolo, sono stati affiancati diversi altri quesiti coinvolgenti decisioni etiche di vario genere per un totale di 60 e i risultati delle misurazioni sono riassunti nel diagramma a fianco.
Tipiche domande di tipo “non-morale” erano domande riguardanti se viaggiare in treno piuttosto che in autobus dati certi vincoli di tempo. Le domande di tipo “morale-personale” erano assimilabili al caso del dilemma del carrello coinvolgente la persona grassa, mentre la categoria “morale-impersonale” era assimilabile al caso del carrello con lo scambio.
I risultati mostrano chiaramente che nei casi in cui vi è un maggior coinvolgimento emotivo la parte attiva del cervello è quella nella zona dell’amigdala che è generalmente coinvolta negli aspetti più “istintuali” del nostro comportamento. Mentre i casi più “asettici” sono gestiti da parte della corteccia prefrontale dove generalmente risiede la nostra capacità di analisi, controllo e pianificazione delle nostre azioni.
In pratica affrontiamo problemi diversi usando diverse parti del cervello e conseguentemente ciò che a posteriori interpretiamo come giusto o sbagliato è solo una razionalizzazione di ciò che alcune parti del cervello ritengono di dover fare nelle varie situazioni.
Gli autori non sostengono che il loro studio possa aiutare il dibattito filosofico su quale sia la linea di comportamento più “morale”, ma i risultati mostrano che la nostra percezione dell’eticità di un comportamento sia qualcosa di molto più “viscerale” di quanto non si pensasse.
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