La morte di George Washington
Prima della scoperta dell’esistenza dei microbi e del loro legame con determinate patologie, la medicina era basata su teorie che miravano a curare il paziente ristabilendo l’equilibrio dei cosiddetti umori basandosi sulla teoria umorale risalente a Ippocrate. Nonostante oggi questa concezione ci possa apparire ingenua e antiquata, alla fine del ‘700 essa rappresentava lo stato dell’arte e i medici la applicavano pedissequamente armati delle migliori intenzioni nei confronti dei propri pazienti.
Purtroppo, come possiamo leggere più sotto, con esiti che potevano concludersi nel modo più tragico.
Poco più di due anni dopo aver lasciato la sua carica, il presidente George Washington passava le sue giornate occupandosi dei suoi possedimenti a Mount Vernon in Virginia. Nel pomeriggio del 13 dicembre 1799, proprio durante un’ispezione della propria fattoria fu costretto a resistere per molte ore al freddo e una pioggia gelida per portare a termine il suo lavoro di supervisione.
La sera dello stesso giorno, nonostante accusasse i primi sintomi di costipazione e mal di gola, pur di non venir meno alla sua proverbiale puntualità, rimase per tutta la cena con i vestiti fradici addosso.
Alle 2 del mattino del giorno seguente si svegliò con la febbre alta e il respiro corto. La moglie Martha, nonostante le insistenze del marito che non voleva che ella lasciasse il calore della camera da letto, chiamò il segretario personale, il Col. Tobias Lear, il quale fece chiamare immediatamente il dott. James Craik, che era stato il medico personale di Washington per più di 40 anni, e il supervisore della tenuta, George Rawlins, che aveva una grande esperienza nella pratica del salasso. Alle 6 del mattino la febbre era diventata particolarmente alta e il dolore alla gola rendeva il respiro estremamente difficoltoso.
Alle 7.30 Rawlins aveva già estratto fra i 350cc e i 414cc di sangue, con Washington che lo incitava a continuare, mentre il Col. Lear, com’era d’uso, gli preparava come ricostituente un decotto di melassa, burro e aceto la cui acidità quasi soffocò il presidente, tanto era l’infiammazione della gola.
Alle 9 entrò nella camera da letto di Washington il dott. Craik il quale, basandosi sempre sulla antica concezione che le malattie traessero origine da uno squilibrio di qualche tipo negli umori corporali, pensò bene di curare l’infiammazione alla gola attraverso una contro-irritazione!
Egli applicò quindi una tintura di cantaridina, una sostanza estratta da un coleottero chiamato Lytta vesicatoria e oggi usato solo nella cura delle verruche data la sua tossicità. Secondo al teoria dell’epoca, le vesciche causate da questa sostanza avrebbero permesso la fuoriuscita degli umori tossici che erano alla causa dell’infiammazione.
Visto che la cantaridina non aveva sortito gli effetti sperati, alle 9.30, furono estratti altri 530cc di sangue seguiti da un altro prelievo simile alle 11.
Alle 12 gli fu somministrato un clistere e gli furono fatti fare dei gargarismi con un infuso di salvia e aceto. A questo punto Washington era ancora in grado di stare seduto per qualche ora seppur con grandi difficoltà respiratorie alle quali il dott. Craik cercò di ovviare con un ulteriore salasso di ben 946cc di sangue, nonostante le obiezioni di un secondo dottore, sopraggiunto nel frattempo, Elisha Cullen Dick.
Alle 4 del pomeriggio arrivò alla tenuta un terzo dottore, Gustavus Richard Brown, che propose un trattamento a base di calomelano (cloruro mercuroso) e potassio antimonil tartrato allo scopo di provocare il vomito.
Alle 5 del pomeriggio il presidente riuscì in qualche modo a recuperare le forze per dettare le sue ultime volontà e persino, gentiluomo fino all’ultimo, ringraziare i tre dottori per i loro sforzi.
Alle 8 gli fu applicata dell’ulteriore cantaridina ai piedi, braccia e gambe e degli impacchi furono applicati alla gola.
Il presidente George Washington si spense alle 10 di sera dopo una cura che gli aveva sottratto un totale di 2.365 litri di sangue (circa il 40% del volume totale) e sottoposto ad una straziante agonia.
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