I primi passi
Il primo ottobre del 1950 il famoso logico matematico Alan Turing pubblicò un articolo intitolato Computing Machinery and Intelligence (Macchine informatiche e intelligenza). Già nel 1936 Turing aveva introdotto il concetto di Macchina di Turing come concettualizzazione dell’operazione di calcolo automatizzato. Se con l’ideazione della Macchina di Turing egli dimostra che è possibile, almeno in linea di principio, realizzare una macchina in grado di eseguire qualsiasi algoritmo e immaginiamo che esista un algoritmo in grado di riprodurre il pensiero umano, nel saggio del 1950, Turing cerca di rispondere alla domanda se una tale macchina, nell’eseguire questo ipotetico algoritmo, stia effettivamente pensando.
Per far ciò ipotizza quello che lui chiama il Gioco dell’imitazione (non a caso il film del 2014 con Benedict Cumberbatch sulla vita di Turing si intitola proprio “The imitation game“) a cui parteciperebbero tre individui, uno sperimentatore, un uomo “A” e una donna “B”. Lo sperimentatore non ha la possibilità di interagire con gli altri due partecipanti se non attraverso una telescrivente e deve riuscire a capire fra A e B chi è l’uomo e chi è la donna. Dal canto loro A deve cercare di aiutare lo sperimentatore a dare la risposta corretta mentre B deve indurlo in errore.
Turing si chiede quale sarebbe l’esito dell’esperimento se al posto di B ci fosse una macchina. Sarebbe possibile costruire una macchina tale che l’esito del gioco sia lo stesso come se questo fosse condotto da soli esseri umani? O in forma più generale, sarebbe possibile creare un programma per computer in grado di dialogare con un essere umano senza che questo si renda conto di aver a che fare un una macchina?
Ispirati dal fatto che il test fosse orientato all’uso del linguaggio, e che l’output naturale per un computer fosse la stampa di un testo sullo schermo, furono fatti diversi studi che sfruttavano la manipolazione del testo per emulare un discorso sensato. In fondo la grammatica e la sintassi di una lingua si basano su costrutti ben definiti ed identificabili, per cui è relativamente facile trovare gli elementi significativi da un testo e usarli per costruire un output utilizzando regole semplici basate sulla sostituzione in testi preconfezionati. Il risultato era tanto più convincente quanto i programmatori erano stati creativi nell’implementare tali regole.
L’esempio più celebre è senz’altro il programma, o per usare una terminologia moderna chatbot, denominato Doctor ELIZA scritto nel 1966 da Joseph Weizenbaum basato sull’imitazione di un terapeuta rogeriano.
Nella terapia rogeriana, il terapeuta si astiene dall’offrire consigli o fare una diagnosi formale, ma piuttosto ascolta e riafferma ciò che dice il paziente nel tentativo di fargli prendere coscienza dei propri problemi e, come conseguenza, superarli. Questa tecnica si presta bene ad essere simulata dal programma in quanto tutti gli elementi di cui ha bisogno sono già presenti nell’input da parte del paziente.
La cosa curiosa è che molti soggetti che interagirono con il programma faticarono ad accorgersi di avere a che fare con una macchina a causa di quello che è stato successivamente denominato Effetto ELIZA, che portava le persone a proiettare significato nelle parole del programma, di fatto presupponendo che questo fosse effettivamente un essere umano. In un certo senso l’utente suppliva alla mancanza di intelligenza della macchina adattando le proprie reazioni e risposte.
Pochi anni dopo, nel 1972 ad opera dello psichiatra Kenneth Colby dell’università di Stanford, fece la sua comparsa la controparte ideale di ELIZA, PARRY.
Stavolta si simulava il tipico schema di pensiero di un paziente affetto da schizofrenia paranoide e i risultati del programma al test di Turing erano sorprendenti. Infatti gli esperti a cui veniva chiesto di distinguere un paziente reale rispetto al programma, rispondevano correttamente solo il 48% delle volte.
Tuttavia, se si toglie l’iniezione di “sensatezza” introdotta nella conversazione dall’essere umano, facendo interagire direttamente i due chatbot, il risultato è un non-senso alquanto esilarante, come è stato provato più volte in quegli anni.
Ecco un estratto di una loro tipica “conversazione” registrata nel gennaio del 1973.
ELIZA: Buonasera. Dimmi i tuoi problemi. Si prega di terminare l’input con un punto o un punto interrogativo.
PARRY: La gente a volte mi dà sui nervi.
ELIZA: Non sono sicuro di capirti completamente.
PARRY: Dovresti prestare più attenzione.
ELIZA: Supponiamo che dovresti prestare più attenzione.
PARRY: Hai diritto alla tua opinione.
ELIZA: Cosa ti fa pensare che io abbia diritto alla mia opinione?
PARRY: Mi infastidisce solo stare con le persone in generale.
ELIZA: Per favore, continua.
…
ELIZA: Vorresti parlare dei tuoi nervi?
PARRY: Credo di sì.
ELIZA: Cosa ti suggerisce?
PARRY: A cosa vuoi arrivare?
ELIZA: Quale risposta ti farebbe più piacere?
PARRY: Non è una questione di piacere o antipatia.
ELIZA: Di cos’altro vorresti discutere?
PARRY: Mi sto stancando di rispondere sempre alle stesse domande.
ELIZA: Che somiglianza vedi?
PARRY: Perché hai bisogno di saperlo?
ELIZA: Cosa ne pensi?
PARRY: Non capisco le tue motivazioni.
ELIZA: Perché non capisci le mie motivazioni?
…
I tentativi, ovviamente fallimentari, di simulare un comportamento intelligente tramite programmi costituiti da algoritmi chiusi e ben definiti misero in evidenza quanto anche la più banale interazione fra due esseri umani si fondi su un bagaglio di conoscenze implicite accumulate durante l’esperienza quotidiana praticamente impossibile da replicare attraverso un algoritmo discreto.
Era ormai chiaro che questo approccio portava inevitabilmente ad un vicolo cieco, ma fortunatamente c’era un filone di ricerca parallelo, un po’ marginale, che aveva iniziato il suo percorso fin dal 1943 e in cui si parlava di reti neurali artificiali ed sono proprio gli studiosi in questo campo che riceveranno negli anni a venire il testimone della ricerca sull’intelligenza artificiale.
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