Il caso del Sahara
Il Sahara è il grande deserto che occupa la parte settentrionale del continente africano. Con una superficie di circa 9’000’000 km2 si estende per circa 5’000 km dall’oceano Atlantico al Mar Rosso.
Nel corso delle ere geologiche l’estensione del Sahara è variata di molto e oggi misuriamo un’area su cui la regione si è assestata intorno ai 5’000 anni fa.
Il limite naturale a settentrione è costituito dal Mar Mediterraneo la cui influenza fa sì che l’estensione del deserto si arresti a circa 1’500 km dalla costa.
A sud invece il confine è molto più sfumato in quanto dipende dalle condizioni climatiche generali e dalle attività degli insediamenti umani che ivi risiedono.
La regione in questione è denominata Sahel: il bordo del deserto.
Degli episodi di eccezionale siccità fra gli anni ’70 e ’80 allarmarono molto le popolazioni locali che videro in pochi anni la vegetazione recedere. Questo diede vita al progetto Great Green Wall che si concretizzò nel 2007 in un accordo firmato da oltre 20 paesi africani.
Il progetto da principio era tanto semplice quanto ambizioso: piantare una grande muraglia di alberi lungo tutto il confine del Sahel per fermare l’avanzata del deserto. Purtroppo il progetto nella sua concezione iniziare non aveva nessuna possibilità di successo.
Non solo non c’erano presupposti scientifici che ne giustificassero la riuscita, ma esso era intralciato da oggettivi problemi di ordine pratico. Banalmente molte zone che sarebbero dovute essere attraversate dalla grande muraglia verde, erano costituite da savana arida e disabitata. Semplicemente non c’era nessuno che potesse prendersi cura degli alberi piantati. L’80% degli alberi piantati nelle prime fasi del progetto morirono.
Negli anni però, la concezione un po’ ingenua del progetto iniziale, si è evoluta incorporando delle pratiche agricole che sono state man mano riscoperte dalle popolazioni locali e incorporando tecniche basate sulla responsabilizzazione degli agricoltrori.
Un esempio significativo ce lo fornisce il Niger dove la particolare situazione del villaggio di Tchida è stata affrontata tramite una tecnica tanto semplice quanto efficace.
L’inaridimento del suolo del villaggio era dovuto alla particolare situazione in cui le piogge torrenziali della stagione umida lavavano via lo strato superficiale organico fertile lasciando un suolo arido che si seccava durante la stagione secca.
La soluzione è stata quella di scavare delle buche poco profonde a forma di mezza luna, riempirle di biomassa (letame o compost vegetale) e piantare al centro delle piante di Acacia senegal, una pianta capace di fissare l’azoto, fornire legname e da cui si estrae la gomma arabica, materia prima utilizzata dall’industria alimentare.
Le piccole dighe semilunari trattengono l’acqua quanto basta a farla percolare nel sottosuolo ripristinando lo strato di humus necessario alla fertilizzazione del suolo.
Sotto la biomassa si ripristina un ecosistema di cui fanno parte anche le termiti che erodono il terreno e favoriscono la penetrazione dell’acqua in profondità che a sua volta stimola le radici delle piante ad affondare nel terreno.
Questa tecnica, che si sta diffondendo non solo al vicino Burkina Faso, ma anche ad altre aree del Sahel, sta gradualmente rimediando alle scellerate politiche coloniali che avevano favorito l’abbattimento delle foreste per fare spazio alle monocolture.
Sicuramente non vedremo il Sahara trasformarsi in una verde prateria, non su una scala temporale umana per lo meno, ma almeno in questo caso l’umanità si sta muovendo in una direzione non ecologicamente distruttiva.
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