Il deserto del Gobi

Continuando sullo stesso parallelo, ma cambiando continente, si incontra un altro grande deserto che da decenni minaccia di sottrarre aree preziose agli insediamenti umani: il deserto del Gobi.
Ancora una volta la spinta verso il disastro ambientale è stata data dall’attività di disboscamento selvaggio per far spazio all’agricoltura nell’ambito del piano di espansione economica voluto da Mao Zedong all’inizio degli anni ’60.
Alla morte di Mao Zedong, l’equilibrio che teneva il deserto confinato nelle regioni settentrionali della Cina era ormai compromesso e il processo di desertificazione aveva iniziato un’avanzata esponenziale verso sud, sottraendo ogni anno 2460km2 di territorio fertile.
L’impatto dell’espansione deserto del Gobi sulla vita delle popolazioni locali riguarda non solo la diminuzione della terra fertile, ma anche la presenza di tempeste di sabbia i cui effetti devastanti si fanno sentire in tutte le regioni limitrofe, fino a Pechino. Ancora oggi, la salute degli abitanti è minacciata da un mix di sabbia, polveri sottili ed emissioni del carbone usato per industrie e riscaldamenti. La fascia agricola che circonda Pechino fra il 2005 e il 2010 si era ridotta del 12% causando l’afflusso 400 milioni di eco-profughi, contadini costretti ad abbandonare la terra resa sterile dalla sabbia e dai veleni.
Il problema è così sentito che si iniziò a parlare di realizzare una “Muraglia Verde” fino dal 1978 sotto il governo di Deng Xiaoping quando fu varato quello che ufficialmente è denominato programma della Cintura protettiva delle tre foreste settentrionali (in Cinese Sān běi fánghùlín 三北防护林).
L’ambizioso progetto si dovrebbe concludere nel 2050 creando una fascia forestale lunga 4480km, lungo tutto il confine settentrionale della Cina, e si compone di 3 stadi e 8 fasi. Entro il 2050, secondo il programma, dovrebbero essere riforestati 35.6 milioni di ettari.

Purtroppo l’approccio propagandistico e ideologico che ha caratterizzato soprattutto le prime fasi della campagna, unitamente alle scarse conoscenze in materia ecologica e climatologica degli anni ’70, ha fatto sì che i primi risultati non fossero particolarmente incoraggianti.
Nelle prime fasi del progetto abbiamo assistito ad alcuni meccanismi di eterogenesi dei fini che avevamo descritto nell’articolo Ecosistema, maneggiare con cautela. Sotto la spinta del governo centrale sono stati piantati certamente migliaia di alberi ma il numero reale è difficile da determinare a causa della tendenza a gonfiare le statistiche da parte degli amministratori locali per mettersi in buona luce.
Gran parte degli alberi erano destinati a morire per eccessiva densità, o per insufficiente irrigazione. Inizialmente si preferì piantare specie alloctone a veloce accrescimento, che necessitavano di una cura e una quantità di acqua che non era disponibile e anzi contribuirono ad inaridire maggiormente un suolo già povero.
In alcuni casi le popolazioni locali furono incoraggiate ad abbattere la flora autoctona per sostituirla con le monocolture selezionate e intascare i relativi incentivi.
Grandi porzioni delle neo-foreste morirono per mancanza di cure, indispensabili perché le piante non facevano parte di un ecosistema in grado di autosostenerle. Le specie utilizzate si rivelarono inadatte al clima e al suolo, e vulnerabili a malattie che a causa della mancanza di biodiversità potevano sterminare l’intera piantagione, come avvenne nel 2000 quando una singola epidemia uccise un miliardo di pioppi nella provincia occidentale di Ningxia, vanificando venti anni di lavoro.

Fortunatamente, in 40 anni di sforzi e fallimenti, si è accumulata anche una considerevole esperienza. La scelta delle strategie e delle colture si è perfezionata e raffinata e, guarda caso, oggi si preferisce investire nelle colture locali, più adatte al contesto ecologico.
Nel complesso nonostante le difficoltà e i passi falsi, milioni di ettari sono stati restituiti alla foresta con conseguenze positive per l’ambiente che oggi cominciano ad essere tangibili.
Sotto vediamo il Parco Nazionale di Saihanba che oggi, dopo la riforestazione, è divenuto un’attrazione turistica.

Ma forse uno dei risultati più notevoli è stata proprio la diminuzione delle tempeste di sabbia sopra Pechino.
L’effetto della riforestazione ha portato l’occorrenza delle tempeste di sabbia che, da una media di 5 all’anno negli anni ’60, erano passate a 24 negli anni ’90, a diminuire fra il 2004-2006 a 3 o 4 ogni due anni, grazie alla rinnovata protezione delle foreste.

E’ difficile ottenere dati estremamente precisi a causa del carattere propagandistico dell’operazione. I detrattori tendono a derubricare alcune operazioni volte a preservare la flora locale e considerano l’intera operazione una foglia di fico per coprire altre attività altamente inquinanti portate avanti dal governo cinese, mentre dall’altro lato le fonti ufficiali tendono a gonfiare e magnificare i risultati raggiunti, come esempio virtuoso da seguire per tutte le altre nazioni.

Innegabilmente però, il bilancio globale ad oggi è positivo, con un polmone verde che è in lenta ma costante espansione dopo decenni di abusi ecologici.