Il linguaggio Navajo e i Code Talker
Immaginate di ascoltare un messaggio in una lingua sconosciuta in cui potete distinguere 4 suoni vocalici ma questi possono presentarsi nella forma breve, lunga o nasale. Fra i suoni consonantici potete identificare, oltre quelli a cui siete normalmente abituati, anche una serie di suoni in cui il flusso dell’aria viene interrotto non semplicemente dalle labbra o dalla lingua, ma dalla glottide.
Come se non bastasse l’intonazione della voce varia su un sistema di 4 toni, alto, basso, acuto e calante.
Se questo non bastasse a convincervi che la possibilità di decifrare il messaggio trasportato da questi sia estremamente ridotta, aspettate di scoprire la complessità grammaticale e morfologica della lingua che avete ascoltato: il Navajo.
Il linguaggio Navajo appartiene alla famiglia delle lingue Na-Dene cui appartengono anche diverse altre lingue dei nativi nord-americani. Questo significa che il Navajo non ha il benché minimo grado di parentela con nessun altro idioma europeo ed asiatico.
Si tratta di una lingua di tipo SOV (Soggetto-Oggetto-Verbo) in cui il ruolo del verbo nella costruzione della frase è estremamente importante. Tanto importante che nella coniugazione del verbo intervengono non solo il soggetto, ma anche l’oggetto. Qui siamo all’estremo opposto rispetto al Toki Pona!
Nella costruzione della voce verbale bisogna tenere conto della categoria cui appartiene l’oggetto, se lungo e rigido (es. una matita) o lungo e non rigido (es. un serpente), se sia granuloso (es. del sale), se sia viscoso (es. del fango) e così via.
Nel verbo vengono inoltre incorporati gli avverbi e alcune qualità del soggetto, come per esempio il fatto che parli per esperienza diretta o per sentito dire.
Nel caso più generale, una voce verbale può arrivare ad essere composta dalla congiunzione di ben 11 suffissi, ciascuno con una funzione ben definita.
Di fatto il verbo da solo può incorporare il significato di un’intera frase rendendo pressoché impossibile, per un non nativo che non abbia altri punti di riferimento, riuscire a decodificarne il significato.
Ovviamente nel mondo esistono molti linguaggi con caratteristiche simili al Navajo e probabilmente alcuni di essi possono considerarsi persino più complessi. Tuttavia vi è stato un periodo storico in cui questo linguaggio si è trovato in una posizione assolutamente fuori dal comune.
Durante la seconda guerra mondiale, un enorme vantaggio tattico nei confronti del nemico fu avere un efficiente sistema per scambiarsi informazioni in modo sicuro. Sul fronte europeo gli inglesi riuscirono a violare la cifratrice tedesca Enigma e, analogamente, sul fronte pacifico, gli americani riuscirono a violare la Purple utilizzata dai giapponesi, riuscendo a conseguire vittorie importanti grazie alle informazioni cui poterono accedere.
Ma gli stessi alleati avevano il problema di dover comunicare con segretezza e sicurezza, e per far ciò misero a punto delle cifratrici più complesse e sofisticate delle loro controparti, la Type X i britannici e la SIGABA gli americani, che rimasero inviolate per tutto il conflitto.
Purtroppo però la loro efficienza era inversamente proporzionale alla loro impenetrabilità.
Cifrare e decifrare un messaggio era un’operazione laboriosa, da effettuarsi lettera per lettera, con un dispendio di tempo notevole.
In molte situazioni, specialmente sul fronte pacifico, dove le battaglie erano particolarmente furiose e concitate, gli americani erano costretti ad utilizzare l’inglese in chiaro per comunicare, col risultato che molti messaggi finivano per essere captati e compresi anche dai giapponesi.
La soluzione fu trovata da Philip Johnston, figlio del missionario William Johnston, che essendo nato a Topeka, Texas, e avendo passato l’infanzia giocando con i figli dei Navajo della zona, era di fatto uno dei pochissimi bianchi in grado di fare da interprete fra l’inglese e il navajo.
Egli propose l’idea agli ufficiali dell’esercito di utilizzare dei bilingui Navajo come “cifratori” lasciando che fossero questi a fare la codifica e decodifica da una lingua all’altra nelle loro teste in un tempo che le cifratrici elettromeccaniche non sarebbero mai state in grado di avvicinare.
Alcune dimostrazioni convinsero il comando delle forze armate che la proposta era valida e nel giro di pochi mesi furono reclutati fino a 420 indiani Navajo che sono passati alla storia come i “Code Talker“.
Alla lingua standard fu aggiunto un sistema di codifica da utilizzare per rappresentare termini e toponimi non presenti nella lingua originale, utilizzando sempre parole di origine Navajo e rimescolate in modo che non fosse possibile ricostruire la parola originale tramite l’analisi delle frequenze.
Il codice Navajo risultante divenne a tutti gli effetti uno strumento bellico.
C’è da dire che l’idea di usare i Code Talker indiani era già stata sfruttata nella Prima Guerra Mondiale e Hitler, essendone a conoscenza, aveva inviato degli studenti di discipline umanistiche a studiare i dialetti dei nativi americani. Per questa ragione il governo americano non aveva preso in considerazione questa soluzione fin da subito.
Ciò che portò all’adozione di Code Talker Navajo fu proprio l’unicità della lingua che non è mutuamente intelligibile neanche verso le altre tribù indiane e, data la segregazione con cui erano stati tenuti i Navajo fino ad allora, gli studiosi tedeschi non erano riusciti ad avvicinarli per studiarli.
I Code Talker diedero prova di coraggio e abnegazione e il loro apporto al successo manovre belliche si dimostrò da subito fondamentale, ma dopo la guerra, il loro ruolo fu tenuto segreto e fu impedito loro di parlarne per ragioni di sicurezza fino al 1968, quando il codice Navajo fu declassificato.
Nonostante i riconoscimenti ai sacrifici fatti da queste persone siano arrivati alquanto tardivamente, a loro rimane la soddisfazione di essere stati padroni di uno dei pochi codici della storia dell’umanità a non essere mai stato violato.
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