Un veleno che non ci tocca: la fasina
La fagiolata è indubbiamente un momento memorabile nel ciclo di spaghetti western di cui a sinistra vediamo Bud Spencer ritratto proprio nell’atto di gustarne una cucchiaiata.
Eppure anche questo appetitoso legume, che per altri versi è un alimento prezioso da un punto di vista nutrizionale, ci fornisce un esempio di veleno alimentare con cui, inconsapevolmente, conviviamo da sempre.
Si dà il caso infatti che molti legumi, e in cima alla lista troviamo i fagioli red kidneys accanto ai più diffusi cannellini, contengano una sostanza denominata Fasina o, con terminologia più scientifica, Fitoemoagglutinina (PHA).
Questa molecola è una proteina che presenta una grande affinità per legarsi ad alcuni zuccheri presenti nelle cellule dei mammiferi.
In particolare esistono due forme di Fasina denominate PHA-L e PHA-E. La Fasina ha la proprietà di causare la coagulazione delle cellule del sangue e quindi distinguiamo la PHA-L, che causa l’agglutinamento dei globuli bianchi (Leucociti) dalla PHA-E, che provoca l’agglutinamento dei globuli rossi (Eritrociti).
L’avvelenamento da Fasina può essere provocato dall’ingestione di anche solo 5 fagioli crudi e i sintomi iniziano a manifestarsi entro le tre ore, iniziando con nausea e vomito molto intensi per proseguire con la diarrea. Per piccole quantità si riesce a recuperare entro le quattro o cinque ore senza il bisogno di intervento medico, ma assunzioni più massicce possono portare a emorragie gastronintestinali fino alla morte.
Fortunatamente per noi la fasina è una sostanza che viene degradata dalla cottura. Sono sufficienti 15-20 minuti di cottura ad almeno 100°C per renderla innocua e i fagioli sono notoriamente legumi che richiedono una cottura decisamente prolungata.
Il nostro primo incontro con un veleno alimentare si risolve quindi in uno scampato pericolo e possiamo goderci una bella pignata di fagioli come quella raffigurata a lato, senza pensarci due volte!
Un veleno Agroalimentare Tradizionale: l’ ODAP
Il caso di cui ci occupiamo adesso è particolarmente spinoso. Il protagonista è ancora una volta un legume, la cicerchia, e la sostanza incriminata ha un nome ostico: acido beta-ossalildiamminopropionico, per brevità β-ODAP.
Come alimento la cicerchia ha una storia lunga, è uno dei legumi più antichi, vi sono stati ritrovamenti in siti archeologici della Mesopotamia, 8000 a.C. e la sua coltivazione domestica pare risalga al 6000 a.C. nella penisola balcanica. In Italia è conosciuta fin dai tempi dei romani e sono documentate ricette gastronomiche che risalgono al 1600.
Si dà il caso però che sia velenosa!
Cerchiamo però di capire quanto.
La sostanza malefica in questo caso l’abbiamo nominata prima e si tratta di un amminoacido non proteico, cioè di un amminoacido che non viene normalmente utilizzato dagli esseri viventi per produrre delle proteine.
Il suo effetto nell’organismo è quello di danneggiare i neruoni motori provocando a lungo andare paralisi irreversibile negli arti posteriori.
La patologia che ne consegue prende il nome di Latirismo derivando il nome dalla denominazione latina della cicerchia che è Lathyrus Sativus.
Il collegamento fra il consumo della cicerchia e il latirismo risale al 1844 e da allora è stato studiato approfonditamente, soprattutto cercando di riprodurne gli effetti sugli animali per cercare di capirne il meccanismo di azione. Con questo scopo è sempre stata fatta una sperimentazione che mettesse in luce l’effetto sugli organismi di grandi quantità di cicerchia, di estratti condensati di cicerchia e di diete a base prevalentemente di cicerchia.
Insomma è stato esplorato approfonditamente l’effetto che ha sull’organismo il sovradosaggio da β-ODAP.
I risultati hanno confermato il rapporto di causa ed effetto fra consumo di cicerchia e latirismo e il consumo di questo legume è andato progressivamente diminuendo nel corso degli anni fino quasi a scomparire.
Le cose hanno iniziato a cambiare recentemente quando un movimento di riscoperta dei sapori tradizionali della cucina italiana ha portato a far riconoscere, da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, lo status di Prodotto Agroalimentare Tradizionale Italiano a questo legume antico.
A fianco di questo tentativo di rivalutare le tipicità dei prodotti italiani si trova una documentazione scientifica crescente relativa alla coltivazione e al consumo di questo alimento riferita soprattutto ad altri paesi del mondo.
Il motore che spinge la ricerca in questo senso è molto semplice: il Lathyrus Sativus è largamente coltivato e usato in molte parti dell’Asia e dell’Africa dove rappresenta l’unico mezzo che hanno molte popolazioni di far fronte a situazioni di siccità estrema. In alcune zone dal clima particolarmente difficile viene fuori la grande capacità di questa pianta di crescere e produrre i suoi frutti rendendola di fatto una coltura salvavita nonostante la sua intrinseca pericolosità.
Gli studi più recenti hanno quindi messo in luce alcuni particolari che in principio erano stati trascurati. In particolare i casi di latirismo conclamato si verificano esclusivamente presso quelle popolazioni in cui la cicerchia diventa l’alimento preponderante nella dieta quotidiana. Questo fa sospettare che, in una dieta più ricca, la presenza della tossina sia contrastata da altre sostanze presenti in generale nell’alimentazione. Inoltre dall’analisi delle urine dei consumatori di cicerchia si nota una quantità relativamente bassa della neurotossina, facendo intendere che una parte di essa venga detossificata a livello del fegato e quindi resa innocua.
Alcuni accorgimenti nella preparazione del piatto finito possono abbassare sensibilmente la quantità di β-ODAP. E’ necessario infatti lasciare a mollo i legumi per diverse ore cambiando l’acqua più volte e infine gettando via l’acqua di ammollo. La cottura prolungata e ad alta temperatura favorisce la conversione di almeno una parte di β-ODAP ad α-ODAP che non è tossica.
Dei valori tipici di concentrazione ODAP nelle cicerchie oggi in commercio è 0.26-0.53g/100g SS (solidi sospesi) e con gli accorgimenti di cui sopra si può arrivare a più che dimezzare la quantità di partenza.
Purtroppo non siamo ancora in grado, per i motivi sopra esposti, di tracciare una linea netta che separi la quantità pericolosa da quella che il nostro organismo è in grado di metabolizzare senza danno.
Sono anche allo studio varietà recanti all’origine delle concentrazioni minori di tossina, o addirittura del tutto prive, ma non è ancora stato selezionato un ceppo che avesse una stabilità tale da poter sostenere che sia a “basso ODAP”. In futuro potrebbe essere prodotto un seme di cicerchia OGM del tutto priva di tossina e quindi adatta alla coltivazione in piena sicurezza.
Oggi possiamo affermare che un consumo saltuario di cicerchia preparata con gli accorgimenti di cui sopra è perfettamente innocuo e in futuro la ricerca potrebbe fornire alle popolazioni che ne fanno un uso intensivo la soluzione a tanti problemi di sussistenza.
Ma tornando all’argomento principale di questo articolo, cioè “la dose che fa il veleno”, la storia della cicerchia ci racconta cosa succede quando nell’alimentazione entra una quantità particolarmente elevata di una sostanza tossica e come lo stesso alimento possa diventare un cibo “salvavita” una volta che la quantità di tossina sia mantenuta al di sotto di un livello di guardia.
Nel caso del β-ODAP possiamo aggiungere qualcosa anche riguardo l’utilizzo in dosaggi ridotti.
Dalla medicina cinese ci arriva infatti l’idea che dosaggi ridotti di β-ODAP risultino persino terapeutici.
E’ stato recentemente scoperto che una sostanza contenuta nella radice di notoginseng, che era stata denominata Dencichine (termine di cui non ho trovato una italianizzazione per cui possiamo pensare di chiamarla Densicina) e considerata efficace come antiemorragico altro non è che l’incriminata β-ODAP di cui abbiamo parlato finora.
A quanto pare all’altro estremo della scala della quantità, quando la tossina diventa sufficientemente scarsa, si trasforma in un farmaco. Come del resto succede a tante altre sostanze che qui non tratteremo perchè ci focalizziamo su quelle tipicamente presenti negli alimenti quotidiani.
11 Settembre 2019 at 20:38
Molto interessante.
Grazie