Il curioso caso dei gatti paracadutisti
La malaria è una piaga che perseguita l’umanità dall’alba dei tempi.
Alcuni studiosi hanno persino messo in correlazione il fatto che una malattia come l’anemia mediterranea non sia stata cancellata dalla selezione naturale proprio grazie alla relativa protezione che offre a chi ne è portatore nei confronti della malaria.
L’arma definitiva nella lotta contro la malaria sembrò finalmente a portata di mano negli anni ’40 quando fu scoperto il DDT.
La sigla DDT deriva dal nome del composto chimico che lo costituisce, il diclorodifeniltricloroetano, ed è un insetticida clorurato caratterizzato da una bassa tossicità nei confronti degli esseri umani e una elevata persistenza nell’ambiente.
Esso fu utilizzato intensamente fra gli anni ’40 e ’50 in Europa e Nord America per combattere la zanzara anofele, portando all’effettiva sparizione della malaria in quelle zone, ma anche per contrastare il tifo che era trasmesso dalle pulci.
Fu usato ovunque, nelle città e in agricoltura. Irrorato sui vestiti e inserito nei saponi.
Tuttavia la nascita di insetti resistenti al prodotto portò ad un incremento nelle dosi via via crescente e l’accumulo nei tessuti faceva sì che esso risalisse la catena alimentare.
Finché nel 1962 la pubblicazione del libro di Rachel Carson Primavera silenziosa diede l’inizio ad un movimento di sensibilizzazione nei confronti dell’uso degli insetticidi che portò al bando del DDT in tutti i paese industrializzati.
Attorno alle fondatezza delle critiche mosse dagli ambientalisti al DDT c’è tuttora un acceso dibattito e sostanzialmente da allora la polemica non si è mai sopita.
La storia di cui ci occupiamo in questo paragrafo si riferisce ad eventi che risalgono ad un periodo compreso fra il 1946 e il 1955 nella cornice di una massiva campagna di profilassi antimalarica portata avanti in Indonesia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Secondo un report ufficiale dell’OMS, fra il 1952 e il 1955 l’attività di controllo della malaria fu portata avanti in Borneo, nello stato del Sarawak attraverso l’applicazione del DDT, e in diverse occasioni di un altro insetticida chiamato BHC o la più tossica dieldrina, sulle pareti interne e sotto i letti delle grandi strutture in legno usate come abitazioni dalle popolazioni locali. Lo scopo era quello di coprire le superfici su cui le zanzare si posavano in attesa del momento opportuno per andare a pungere gli abitanti degli alloggi.
Tali abitazioni potevano arrivare ad ospitare fino a cento famiglie e, data la relativa stanzialità delle popolazioni e l’abitudine delle zanzare locali di soggiornare in luoghi chiusi, l’esito delle applicazioni ebbe dei risultati molto positivi in quanto, nel periodo dal 1953 e il 1955, la percentuale di zanzare portatrici della malattia passò dal 35.6% al 1.6%.
Purtroppo a questi successi, si associarono le prime, spiacevoli, conseguenze inattese.
In Guiana inglese il successo nello sterminio dell’Anopheles darlingi, che si nutre principalmente di sangue umano e soggiorna abitualmente negli ambienti chiusi da essi abitati, fu totale. Furono risparmiate le specie Anopheles aquasalis e Anopheles albitarsis che soggiornano all’aperto nutrendosi del sangue degli animali di allevamento.
La diminuita mortalità degli esseri umani però portò ad un aumento della superficie coltivata a riso a discapito di quella destinata all’allevamento e, al diminuire del bestiame, l’Anopheles aquasalis non poté che orientarsi verso gli umani riprendendo il ruolo della darlingi, e riaccendendo i focolai di malaria.
Sempre in Borneo, nello stato del nord oggi chiamato Sabah, le popolazioni videro i tetti delle capanne crollargli addosso. Quello che succedeva in questo caso è che i bruchi che normalmente infestavano i tetti in paglia delle capanne furono in grado di distinguere e evitare le zone irrorate dall’insetticida, ma non furono così abili le vespe parassitoidi che normalmente ne avrebbero tenuto sotto controllo la popolazione usandoli come incubatori per le proprie larve. Morte le vespe, i bruchi ebbero vita facile danneggiando le abitazioni.
Ma la storia più colorita è quella che si può far risalire al racconto di un tale Tom Harrisson, datata 1965 e che ha avuto larga diffusione fino agli anni ’70.
Lo scenario è sempre il Borneo e questa volta le vittime dell’irrorazione del DDT non sono le vespe ma i gatti domestici i quali sarebbero morti a causa dell’accumulo nel loro organismo della sostanza e avrebbero indirettamente permesso il proliferare dei ratti portatori di varie malattie in sostituzione della debellata malaria.
Ciò che rende questa vicenda curiosa è che il mezzo per contrastare l’improvvisa mancanza di felini fu quella di paracadutarne un certo quantitativo nelle zone più inaccessibili, operazione alla quale Harrison avrebbe partecipato.
Purtroppo è difficile accertare esattamente come furono andate le cose perché della vicenda ne esistono numerose versioni e in ciascuna alcuni elementi sono leggermente diversi. La causa della morte dei gatti fu in alcuni racconti il loro alimentarsi di scarafaggi contaminati, in altri casi di lucertole e in altri ancora l’assunzione diretta della sostanza durante la cura che gli animali hanno della propria pelliccia leccandola.
Anche il numero e la modalità con cui tali lanci siano avvenuti è molto variabile, dai 23 ai 14000, e il tutto è sempre raccontato in maniera piuttosto aneddotica e affabulatoria dalle varie fonti.
Certamente, proprio come in questo articolo, la storia è stata spesso usata come un esempio eclatante di conseguenze inattese!
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