La struttura della retina

Un altro tipico esempio che viene portato dai sostenitori dell’evoluzione contro l’idea del disegno intelligente è la struttura dell’occhio dei vertebrati.
Come si è detto, lo stesso Jacques Monod affronta la definizione della teleonomia aprendo con il confronto fra la struttura dell’occhio con quello di una macchina fotografica. Si tratta indubbiamente di un argomentazione suggestiva in cui non si può non vedere la corrispondenza fra le due strutture: un diaframma da un lato e un foro pupillare dall’altro, una lente in vetro da un lato e un cristallino dall’altro e, attraverso una camera oscura, un elemento sensibile, come una pellicola o oggigiorno un sensore, da un lato e la retina dall’altro. A questa descrizione meccanica uno è portato ad aggiungere il confronto ideale fra l’immagine fotografica nitida e vivida e la sensazione visiva che ci restituiscono i nostri occhi nella vita quotidiana.
La tentazione di interpretare la struttura dell’occhio come un opera di alta ingegneria biologica è forte, ma, come avevamo già illustrato nell’articolo Una realistica illusione, la struttura del nostro più importante organo di senso, “vista da vicino” lascia molto a desiderare.
Innanzitutto, la sensazione di nitidezza e vividezza della scena osservata è puramente illusoria. La sensibilità della retina è massima solo in prossimità della fòvea, nella zona del diametro di circa 5,5mm che viene denominata macula.
Altrove, andando verso la periferia della retina, la qualità dell’immagine degrada sensibilmente, diventando più granulosa, in bianco e nero e via via più distorta proiettandosi su una superficie curva.
Il fatto che questa descrizione non coincida con la nostra percezione è dovuta al lavoro di sintesi e interpolazione operata dal nostro cervello in fase di elaborazione del segnale visivo.
Tuttavia le limitazioni qualitative appena illustrate potrebbero essere ascritte a ragioni pratiche dovute alla natura del supporto biologico.
D’altronde, per la natura, produrre un occhio cubico con una retina squadrata comporterebbe difficoltà notevoli, e uniformare la distribuzione dei coni e bastoncelli, le cellule sensibili alla luce, potrebbe comportare dei costi inaccettabili in termini di bio-disponibilità dei particolari recettori necessari per la visione nitida e a colori.
C’è tuttavia un aspetto per il quale, se l’organo fosse stato pensato a tavolino, non ci sarebbero scusanti per giustificare l’infelice scelta progettuale. Come si può vedere in questa schematizzazione, la retina è adagiata sul fondo dell’occhio al contrario!
L’estremità sensibile dei recettori non è orientata a captare la luce, come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma verso il fondo dell’occhio. La luce deve attraversare tutto lo spessore della retina, subendo l’interferenza dei corpi delle cellule di supporto che accompagnano i coni e i bastoncelli.
Come se non bastasse, i segnali prodotti dai suddetti coni e bastoncelli, sono accolti da un groviglio di sinapsi che alla fine si raccolgono in una rete ordinata di assoni nervosi che devono a confluire nel nervo ottico per raggiungere il cervello.
Ma trovandosi dal lato sbagliato non possono fare altro che “forare” la retina per passare dall’altra parte, dando origine a quella che è nota come macchia cieca.
Quindi come ulteriore conseguenza di questo “errore progettuale” ci ritroviamo con un campo visivo incompleto che ancora una volta deve essere “riempito” in “post-produzione” dall’operato dell’elaborazione centrale.
Va detto che l’organo della visione, essendosi sviluppato indipendentemente più volte nel corso dell’evoluzione, in altri casi non si è trovato la stessa situazione che ha interessato i vertebrati e l’uomo. Per esempio è noto che l’occhio dei cefalopodi, polpi e seppie, pur conservando una notevole similarità con quello dei vertebrati, non presenta questa caratteristica di retina ribaltata e le cellule sensibili sono perfettamente allineate verso la fonte luminosa con un nervo ottico che raggiunge il cervello senza interromperne la continuità.