Lo scudo spaziale

L’unità di misura del campo geomagnetico nel sistema internazionale (SI) è il tesla (T). I valori del campo, espressi in quest’unità di misura, sono molto grandi e nella pratica si utilizza il suo sottomultiplo nanotesla (nT), pari a 10−9T, oppure il gauss (G) essendo 1G = 10−4T. In questa scala il valore del campo sulla superficie terrestre varia in intensità, mediamente da circa 20000nT all’equatore, a circa 70000nT ai poli.
Per avere un confronto, l’ordine di grandezza per calamite di dimensioni comuni può essere attorno a 1÷10mT ad una distanza di circa 1cm in prossimità del polo e diminuisce rapidamente allontanandosene. Quindi il campo magnetico terrestre è 3 ordini di grandezza più debole di quello di una normale calamita. Se si pensa che non sono stati riscontrati effetti fisiologici certi sugli organismi viventi per campi ben più intensi, fino a 4T, come quelli utilizzati negli apparecchi per la risonanza magnetica, si capisce come l’influsso del magnetismo terrestre sugli esseri viventi sia del tutto inesistente.
Ciononostante l’importanza del campo magnetico per la vita sul pianeta è enorme, ma per comprenderla è necessario parlare delle fasce di Van Allen.
[cml_media_alt id='2655']vento3[/cml_media_alt]La nostra stella, il Sole, oltre a irradiare nel sistema solare una generosa quantità di energia sotto forma di luce e calore, da cui il nostro pianeta trae sostentamento per i suoi abitanti, emette anche il cosiddetto Vento Solare.
Si tratta di un flusso di particelle cariche, essenzialmente protoni ed elettroni e in minor quantità nuclei di elio, ad alta energia.
Queste particelle, essendo cariche, arrivando in prossimità della Terra, interagiscono col campo magnetico e, a causa della forza di Lorentz, la loro traiettoria viene deviata ed esse rimangono intrappolate in due zone toroidali dette fasce di Van Allen.
[cml_media_alt id='2657']vanallen[/cml_media_alt]La loro esistenza venne dimostrata nel 1958 dal fisico James Van Allen utilizzando i dati rilevati dalle sonde Explorer 1, Explorer 3 e Pioneer 3.
Le fasce di Van Allen rappresentano un vero e proprio scudo per il nostro pianeta nei confronti del vento solare evitando che una grande quantità di particelle cariche possano raggiungere la superficie e interagire con il DNA degli esseri viventi.
Nella figura sono rappresentate in uno spaccato le due zone che circondano il pianeta, la più esterna ad energia inferiore che intrappola prevalentemente le particelle a carica negativa e la più interna che blocca le particelle a carica positiva, mediamente più energetiche.
La protezione offerta da questo scudo magnetico tuttavia lascia sfuggire una certa quantità di vento solare in prossimità delle zone polari rendendo possibile il fenomeno delle aurore polari in cui le particelle liberano la propria energia interagendo con l’atmosfera e di cui si possono trovare bellissime immagini in rete, come quella sotto riportata.

[cml_media_alt id='2658']aurora[/cml_media_alt]

La presenza del campo magnetico lascia una traccia misurabile sulle rocce e dall’analisi della magnetizzazione residua misurabile nei campioni in giro per il mondo si possono ricavare importanti informazioni sulla storia del pianeta, soprattutto incrociando i dati magnetici con altri metodi di datazione.
Questo campo di studio è denominato paleomagnetismo ed ha permesso di ricostruire l’evoluzione del campo magnetico fino a 170 milioni di anni fa. Confrontando poi la storia magnetica delle rocce in diverse parti del globo si possono anche modellizzare i movimenti delle terre nell’ambito della deriva dei continenti.
Il paleomagnetismo si basa sul fatto che, nei processi di formazione delle rocce l’influenza del campo magnetico può essere congelata allo stato in cui si trova al momento in cui avviene il fenomeno.
Per esempio, i materiali ferromagnetici presenti nelle rocce ignee possono mantenere lo stato di magnetizzazione impressa dal campo magnetico al momento in cui la loro temperatura scende al disotto della temperatura di Curie. Si parla in questo caso di magnetizzazione termoresidua. Oppure, per i minerali sedimentari, essi possono ritenere l’orientamento impresso al momento della loro sedimentazione, magnetizzazione residua detritica.

Una delle scoperte più interessanti del paleomagnetismo è il fatto che, non solo il campo mangnetico è variabile da punto a punto sulla superficie terrestre e variabile nel tempo, ma questa variabilità arriva a coinvolgere su larga scala il campo magnetico nella sua globalità, portando ad un suo annullamento e successiva inversione di polarità. Le osservazioni paleomagnetiche mostrano che in passato si sono verificate inversioni di polarità ogni 250000 anni circa mentre la polarità attuale si mantiene da circa 780000 anni. Per questo motivo alcuni studiosi pensano che una nuova inversione sia “geologicamente” vicina.
C’è da dire che le modalità con cui questa inversione si verifichi sono tutt’altro che chiare. Ovviamente lo scenario più catastrofico è quello in cui il campo si “spegna” per riaccendersi in verso opposto. In questo caso la vita sulla terra si troverebbe esposta al vento solare e andrebbe incontro ad un periodo di rapida estinzione e nascita di nuove specie.
Uno scenario forse più realistico vede i poli magnetici sottoposti ad una migrazione che li porterebbe a stabilizzarsi per un certo periodo in un’altra condizione di relativa stabilità ruotata di 180° ma senza annullarsi completamente. Quello che è sicuro è che questa parte della geologia è ancora molto speculativa.